i vestiti delle sfilate non sono tutti immettibili

Il video, nuovo strumento della moda. Non sempre all’altezza, però

Il video, nuovo strumento della moda.

Non sempre all’altezza, però.

In tempi di distanziamento sociale e pandemia, il video sta diventando un prezioso alleato anche per chi produce moda. Ma non sempre i risultati sono all’altezza degli intenti.

A Milano come a Londra o Parigi il passaggio in video di quelle che un tempo furono le sfilate è giunto all’apice.

YouTube è stato in questa stagione il tessuto connettivo della community internazionale che segue o lavora nel mondo del fashion.

La settimana della moda più strana della storia, ribattezzata con quel brutto termine, phygital, per descrivere la sua natura ibrida tra video in streaming e sfilate dal vivo (a porte chiuse o aperte, con pochi ospiti ben distanziati).

Ci sono state 23 sfilate dal vivo e 60 presentazioni, senza contare proprio quegli “eventi digitali” visti troppo spesso come una toppa di cui accontentarsi e non come un’occasione per sperimentare nuovi linguaggi.

Ormai la forma-video-evento è destinata a entrare stabilmente nel ciclo della moda. Su YouTube si può fare sperimentazione e si può osare con i video.

Capire come funziona una presentazione sullo schermo di un pc o su quello di uno smartphone è divenuto dunque importante.

Non si tratta certo di riproporre una crew composta da giovani donne e uomini, che si pavoneggiano su una passerella.

Perché non è affatto scontato che ciò che funziona in un filmato faccia altrettanto nella vita di tutti i giorni.

Se guardiamo all’ultima Milano Fashion Week troviamo di tutto in fatto di produzioni video.

Dai video che mancano di una qualsiasi consistenza, girati in interno con una tale scarsità di mezzi e di idee da non riuscire a suscitare una qualsiasi emozione.

Ai video girati in assenza di pubblico ma poco distanti dalla logica della presentazione più classica. Dunque modelle e modelli ripresi uno dopo l’altro ma non necessariamente con la sintassi di sempre come quelli di Prada e Donatella Versace.

Marni, per esempio, ha fatto uno sforzo creativo notevole, che esce dai confini della moda per diventare esperienza mediale.

Sul sito ufficiale, su Instagram, su YouTube e in un cinema di Milano a inviti ha trasmesso live su uno schermo diviso in 16 canali un pezzo di vita delle modelle che avrebbero indossato la nuova collezione.

Ciascuna si riprendeva da sé, in casa o per strada, da Londra, New York o Detroit, mentre faceva la spesa o parlava con un amico. Fino ad arrivare al momento della “sfilata”, diventata una sorta di conquista delle strade a schermo unico.

Ciascuna modella restava nella propria città, ma inviava la sua testimonianza video in contemporanea con le altre, lontane ma vicine grazie alla condivisione dello stesso momento.

Marni ha trasformato così anche il concetto di evento digitale, facendo convergere la dimensione live di un happening e quella immateriale di una ripresa con lo smartphone. Presenza e assenza, corpi dal vivo e corpi registrati, moda e videoarte.

Poi troviamo lo spettacolo messo insieme da Jeremy Scott per Moschino: una stravaganza di 7’ 40” costruita con burattini in movimento come si trattasse di una sfilata in un atelier di alta moda degli Anni Cinquanta.

A tutti gli effetti appartenente alla categoria dei corti “sperimentali” è invece la presentazione di Marnifesto di Francesco Risso per Marni. Un corto di 1 ora e 17 minuti girato tra Los Angeles, Detroit, Philadelphia, New York, Londra, Milano, Parigi, Dakar, Shanghai e Tokyo, accostate in un acquario digitale trasmesso in live streaming da tutti quei luoghi.