Il prezzo del disprezzo: rigattieri, mercanti e la lunga storia dell’usato nella moda

Seconda mano di Giacomo Todeschini

L’odore che resta

C’è un odore che non si cancella: quello dei tessuti rimasti chiusi in un baule troppo a lungo. Non è solo polvere, non è solo muffa: è la traccia sottile di mani che li hanno indossati, piegati, rattoppati. Una scia di vite vissute che il saggio Seconda mano di Giacomo Todeschini riporta alla luce, come un restauratore che soffia via la patina dell’oblio.

Nel Medioevo, la stoffa logora, il cuoio consumato e i gioielli graffiati non erano scarti: erano beni in transito, pronti a una seconda vita. Eppure, insieme al riuso, c’era anche il marchio silenzioso del disprezzo.

Rigattieri: tra necessità e stigma

Nelle vie strette di una Prato cinquecentesca o nei registri polverosi delle città medievali, i rigattieri appaiono come figure marginali e indispensabili allo stesso tempo. Vendono “lenzuola bucate”, “materassi logori”, “vestiti lisi”: una nomenclatura che pare inventata per umiliare, e invece rivela l’esistenza di un’economia parallela, fondamentale per far circolare beni e risorse.

Nel sistema sociale dell’epoca, il problema non era tanto cosa si vendeva, ma chi lo vendeva. La professione del rigattiere portava addosso il sospetto dell’infamia: non mendicante, non mercante, ma qualcosa di intermedio. Una figura che permetteva alla società di liberarsi dello sporco – materiale e simbolico – senza sporcarsi le mani.

Il riuso come codice sociale

Todeschini scava nei documenti e scopre un meccanismo che anticipa la moda contemporanea: il riuso non era marginale, ma strutturale. Abiti pregiati, sete e velluti passavano dalle spalle dell’élite alle mani dei ceti medi, fino ai mercati dell’usato. Il valore non dipendeva solo dal tessuto o dal taglio, ma dalla storia di chi li aveva indossati.

Indossare un capo di seconda mano significava a volte elevarsi socialmente, altre volte mascherare la propria condizione. Il vestito diventava un passaporto simbolico: poteva aprire porte o alimentare sospetti.

Le leggi del lusso e le paure dell’élite

Tra XIII e XV secolo, le leggi suntuarie cercavano di bloccare questa mobilità. Stabilivano chi poteva indossare certi colori, tessuti e ricami, per evitare che le classi emergenti “imitassero” i potenti. Ma il mercato dell’usato aggirava le regole: un abito di broccato, riadattato, poteva finire sulle spalle di una sposa artigiana. Una minaccia silenziosa all’ordine stabilito.

Dal Medioevo a oggi: lo stesso sospetto

Il parallelismo con il presente è inevitabile. Oggi il second hand e il vintage vivono una stagione di prestigio, sostenuti dal discorso sulla sostenibilità. Eppure, nelle pieghe del linguaggio, sopravvive il vecchio pregiudizio: “riciclato”, “usato”, “di seconda mano” portano ancora un’ombra di minor valore, se non vengono incorniciati da un’aura glamour.

I mercatini rionali e le app di reselling sono i nuovi crocevia dove status, desiderio e consumo si incontrano, replicando dinamiche secolari.

Riscattare il disprezzo

Seconda mano non è solo un saggio storico, ma una lente per capire come le gerarchie sociali si riflettano nel guardaroba. Nel Medioevo come oggi, la moda è un linguaggio: e l’usato è la sua grammatica più antica.

Riscattare il valore degli oggetti – e delle mani che li hanno posseduti – significa anche riscrivere la narrazione di chi è rimasto ai margini. Perché dietro ogni stoffa sdrucita c’è un capitolo di storia, e dietro ogni mercante dell’usato un pezzo di economia nascosta.

Forse, guardando un abito vintage in una boutique di oggi, dovremmo pensare non solo al suo taglio o al brand, ma al filo invisibile che lo lega a secoli di mani, sguardi e pregiudizi. E chiederci: quante storie, quante vite, quanti disprezzi ha dovuto attraversare per arrivare fino a noi?

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