
Max Mara e Cgil: accuse, ritorsioni e un progetto da 100 milioni in fumo

Una fabbrica, 52 voci, 100 milioni di euro. E una scelta che somiglia più a una porta sbattuta in faccia che a una decisione strategica. Max Mara ha annunciato l’abbandono del “Polo della Moda” a Reggio Emilia, un investimento monstre che avrebbe ridisegnato il futuro produttivo del territorio. A far saltare tutto? Le denunce di sfruttamento da parte di alcune dipendenti e le proteste organizzate dalla Cgil.
Questa non è solo una vicenda industriale. È una crepa profonda che tocca lavoro, dignità e potere. Ed è già arrivata in Parlamento.
🔍 Accuse pesanti: insulti, vessazioni, “mobbing a cottimo”
A scatenare la tempesta sono state le parole di 52 lavoratrici dello stabilimento di San Maurizio, di proprietà del gruppo Max Mara. Denunce circostanziate, raccapriccianti: turni estenuanti, insulti sessisti e body shaming (“mucche da mungere”, “obese”), controlli asfissianti, persino la negazione della libertà di andare in bagno. Il tutto mentre si lavorava “a cottimo”, cioè a ritmi incalzanti legati alla produzione.
A raccogliere le loro testimonianze è stata la Cgil, che ha dato il via a una serie di scioperi e proteste. E a crederle, anche il sindaco di Reggio Emilia, Marco Massari, che ha deciso di incontrarle personalmente. Una mossa che al presidente di Max Mara, Luigi Maramotti, non è affatto piaciuta.
💥 Il colpo di scena: Max Mara si sfila
Il risultato? Il gruppo ha annunciato il ritiro definitivo dal progetto “Polo della Moda”. Lo ha fatto con una lettera formale, indirizzata proprio al sindaco. Nessuna apertura, nessuna mediazione. Solo un messaggio chiaro: "Non ci sono le condizioni per costruire il Polo in un clima come questo".
Un clima fatto — secondo Maramotti — di "disinformazione, sensazionalismo e superficialità". Un’accusa pesante rivolta, di fatto, a sindacato, istituzioni e stampa. Il gruppo ha rifiutato qualsiasi responsabilità, dichiarando che l’ambiente di lavoro “non è lesivo della dignità delle persone” e portando come prova il sostegno pubblico di 68 lavoratrici che hanno difeso l’azienda.
🧨 Ritorsione o autodifesa?
È qui che la vicenda cambia tono. Quella che potrebbe sembrare una scelta industriale, agli occhi di molti — Cgil in primis — appare come una ritorsione. La “punizione” per aver osato alzare la testa. Il segretario generale della Cgil di Reggio, Cristin Sesena, lo dice chiaramente: “Non si può cancellare un progetto urbanistico per una vertenza sindacale”.
E il Parlamento prende parola. Il deputato Marco Grimaldi (AVS) accusa Max Mara di “arroganza padronale” e chiede l’intervento della ministra Calderone. Perché nel frattempo, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha confermato irregolarità. Le lavoratrici non si sono inventate tutto. Qualcosa, lì dentro, non funzionava.
A Reggio Emilia si respira una tensione palpabile. La città, che aveva investito politicamente ed economicamente nel progetto del Polo, ora si ritrova con un pugno di mosche. Il sindaco Massari è finito nel mirino di chi lo accusa di aver fatto saltare tutto per un eccesso di sensibilità sociale. Ma per altri, ha semplicemente fatto il suo dovere: ascoltare chi lavora, chi denuncia, chi subisce.
Max Mara, dal canto suo, si trincera nella convinzione che le accuse siano false, isolate, politicizzate. E chiude le porte. Definitivamente.
È impossibile ignorare il fatto che la fabbrica sia spaccata. Da una parte 52 donne che raccontano una quotidianità tossica, un’umiliazione sistemica. Dall’altra 68 che smentiscono tutto, descrivendo un ambiente pulito, rispettoso e persino accogliente.
Due verità? Forse due prospettive. Ma quando 52 persone si espongono, a rischio del proprio lavoro, forse vale la pena ascoltare. Senza trasformare il dissenso in vendetta economica.
🇮🇹 Moda italiana e diritti: un equilibrio precario
Questo caso solleva una questione più ampia: può il lusso italiano costruirsi sul lavoro sottopagato e sulle vessazioni? Può una griffe globale rispondere con una minaccia economica a una protesta sindacale?
Il paradosso è questo: proprio mentre la moda italiana cerca di sbandierare inclusività, responsabilità e benessere, uno dei suoi colossi mostra il volto più rigido e intransigente. E nel farlo, sacrifica 100 milioni di euro. Ma soprattutto, sacrifica il dialogo.
Questa non è solo una cronaca locale. È uno specchio per tutto il sistema. Perché non riguarda solo Max Mara o Reggio Emilia, ma ogni azienda che si trova a fare i conti con il malessere interno e decide, invece di curarlo, di ignorarlo.
Ci ricorda che parlare di sostenibilità non significa solo usare tessuti riciclati, ma anche — e soprattutto — garantire ambienti di lavoro sani. Che i valori non si sbandierano nei comunicati stampa, ma si praticano ogni giorno. In azienda, in fabbrica, tra le scrivanie e le cuciture.
E che le parole delle donne non sono un fastidio da zittire con una lettera. Sono la parte più vera, e spesso più scomoda, della realtà.
Se vuoi vedere altri articoli simili a Max Mara e Cgil: accuse, ritorsioni e un progetto da 100 milioni in fumo Entra nella categoria Job.
Articoli correlati