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La moda del fast fashion: economica, ma non per l’ambiente

Per vestirci spendiamo sempre di meno, compriamo sempre di più e buttiamo di più: è il fast fashion.

Quanto costa all’ambiente questa industria?

Davanti allo specchio, ci siamo abituati a poter indossare di tutto, cambiando i vestiti preferiti più o meno quando ci va, grazie ai prezzi sempre più bassi del ready to wear (o prêt-à-porter) e degli stock, che scopiazzano dalle passerelle dell’alta moda della stagione precedente e si trasformano al volo in linee di produzione capaci di sfornare capi e accessori a milioni, destinati ad arrivare ovunque.

Tutto questo è il mondo del fast fashion, termine coniato nel 1989 dal New York Times in occasione dell’apertura del primo negozio Zara nella Grande Mela, che sta appunto a indicare una moda veloce, dove evidentemente “veloce” sta per “vita breve”.

CRESCITA ESPONENZIALE. Dagli anni ’70 al 2000, la produzione di capi di abbigliamento è aumentata di pari passo con la crescita della popolazione mondiale: tuttavia, negli ultimi vent’anni, ha subìto una notevole accelerazione, crescendo più della popolazione mondiale.

Dal 1975 al 2018, la produzione è passata da 6 a 13 kg di vestiti a persona. Secondo le stime, la richiesta per il ready to wear cresce annualmente del 2%.

QUESTIONE DI TAGLI. La crescita è dovuta a diversi fattori che fanno sì che il mercato sia invaso a ritmo continuo da nuovi prodotti a basso prezzo più velocemente di una volta. Tra questi, la delocalizzazione della produzione dove energia e manodopera costano meno e l’avvento dell’online, che consente di tagliare i costi dei locali e del personale, e permette alle aziende di raggiungere qualunque consumatore, ovunque si trovi.

NON COSTA NIENTE! Il fatto che compriamo di più non significa che spendiamo di più, anzi: in Europa negli anni ’50 il costo dell’abbigliamento incideva per il 30% sul bilancio delle famiglie; nel 2009 per il 12%; oggi rappresenta appena il 5% della spesa per famiglia. Nonostante questo, i consumi non sono mai stati così alti: negli USA si compra in media un capo di abbigliamento ogni cinque giorni e mezzo; in Europa gli acquisti sono meno compulsivi, ma l’abbigliamento ha comunque vita sempre più breve: negli ultimi quindici anni, la sua vita media si è ridotta del 36%.

DAVVERO NON COSTA NIENTE? Una ricerca pubblicata su Nature Reviews Earth & Environment conferma la tendenza già rilevata in uno studio del 2018: con 4.000-5.000 milioni di tonnellate di CO2 rilasciate annualmente nell’atmosfera, l’industria della moda nella sua globalità (tessile, abbigliamento, accessori, calzature e via dicendo) è responsabile di circa l’8-10% delle emissioni globali; con 190.000 tonnellate, è colpevole dell’accumulo negli oceani di oltre un terzo delle microplastiche. Contribuisce per il 20% alla contaminazione industriale dell’acqua in tutto il mondo, e produce più di 92.000 tonnellate annue di rifiuti tessili (tra cui rientrano anche i capi di abbigliamento invenduti).

La prossima volta che entrerete in un grande magazzino e sarete tentati dai colori e dai prezzi ad acquistare molti sfizi in più di quelli che avevate in mente di concedervi, pensate che ciò che non state pagando voi, lo pagherà l’ambiente – e il conto arriverà ai vostri figli e nipoti.

Fonte: Focus

 

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