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E’ una buona notizia che la moda sia democratica?

Nel 1988 la moda era inaccessibile ed elitaria, oggi è inclusiva e democratica. Ma è davvero una buona notizia? E Instagram ci rende davvero felici? I millennials, con le loro ossessioni politically correct, hanno davvero ragione? Una riflessione di Bret Easton Ellis su Vogue Italia, vent’anni dopo il suo best seller Glamorama. Bret Easton Ellis torna sul luogo del delitto, in esclusiva per Vogue Italia. E non fa sconti a nessuno.

1.
Mentre nel corso degli anni Novanta scrivevo Glamorama, la mia epic novel di modelli-terroristi (iniziata nel dicembre del 1989 e terminata nel dicembre 1997), ho frequentato il mondo della moda di Manhattan, Londra, Parigi e brevemente di Milano – una ricerca in cui mi sono imbarcato perché quasi tutti i personaggi del libro sono modelli (uomini o donne), compresa la voce narrante Victor Ward. Victor si trova al centro di un ramificato intrigo politico che ha come sfondo proprio quel mondo della moda internazionale che lui crede di conoscere intimamente, ma alla fine l’intrigo lo fagocita. Poiché è lui la voce narrante che ci parla in modo incalzante, tempo presente e prima persona singolare, il lettore insieme al personaggio scopre, troppo tardi, che l’obiettivo dell’intrigo è Victor stesso, e che tale è diventato perché crede fermamente nella superficie, e dunque è cieco su tutto il resto.

Victor è sedotto (da sempre) da un mondo fatto di superfici, un mondo falso e aggressivo, addirittura teatrale; e proprio per questo motivo è un luogo che può rivelarsi illusorio – un luogo dove forse si potrebbe persino organizzare lo scellerato disegno dei terroristi di Glamorama, che peraltro alla fine la passano liscia. Per portarlo avanti usano l’ignaro Victor proprio perché lui non vede nulla oltre la bellezza superficiale – è uno sciocco, un innocente. E gli assassini la passano liscia perché sanno che lui non cercherà il significato più profondo delle cose che accadono – sparizioni, un’overdose, un delitto mascherato da suicidio, attentati, il controspionaggio che tira le fila, e tutto questo all’interno del vorticoso pianeta fashion che i cattivi usano per depistare. Victor vede quel che vede senza farsi domande – è ciò che è, e null’altro. Per me Victor era una metafora, un simbolo di dove ci trovavamo noi americani in quel momento, quando sembrava che una cultura avesse senso soltanto se scivolava sulla superficie delle cose, come cantavano gli U2 nel loro brano del 1991 Even Better Than the Real Thing. Per me Victor Ward era un’indicazione letteraria: un avvertimento.

2.
A metà degli anni Novanta, ovvero quando è ambientato Glamorama, erano in pochi ad aver accesso al glamorous, misterioso mondo della moda. Tranne che per gli stilisti e le modelle, i fashion editor e alcune star, era un mondo chiuso che si intravedeva soltanto sulle riviste e in qualche saltuario video. Eravamo alla fine dell’era analogica, con quella digitale che si profilava in lontananza, e distanti almeno una decina di anni dall’iPhone. (C’è una scena nella prima parte del romanzo in cui due personaggi, reincontrandosi, hanno una lunga conversazione mentre scartabellano in un negozio di dischi – ve li ricordate?). L’inaccessibilità e l’esclusività di quel mondo erano ciò che lo rendeva tanto attraente e affascinante, non soltanto per Victor Ward e i personaggi del romanzo, nonché per la fazione-ombra che lo usa per i propri fini sanguinari, ma anche per il pubblico fuori che fremeva dalla voglia di entrarvi in contatto. Quel mondo era talmente esclusivo da rasentare la segretezza.

Vi si dava grande importanza alla superiore individualità dello stilista e a quella delle modelle che indossavano i suoi abiti – le supermodelle: donne (e uomini) di una bellezza incredibile, i cui visi abbaglianti negli anni Novanta dominavano e definivano tutto il settore, divinità non dissimili dalle modelle (e dai modelli) che si aggirano in Glamorama. La loro bellezza li rendeva straordinariamente esclusivi – non c’era nessun altro come loro ed era questo a renderli speciali –, ma esclusivo era anche il loro mondo, che risultava pertanto straordinariamente affascinante. Oggi quel mondo non esiste più. Cosa sarebbe Glamorama in una cultura che sembra ossessionata dall’inclusività e dall’idea del pensiero di gruppo invece di quello individuale, e che preferisce l’ideologia all’estetica? Un mondo dove una considerevole fazione pensa che tutti debbano essere uguali – e tuttavia anche un mondo in cui le ragazze e i ragazzi di vent’anni si sottopongono alla chirurgia plastica, trasformando così i lineamenti di cui li ha dotati la natura in smorfie innaturali con gli occhi semichiusi. Un mondo dove il movimento body positive sostiene che tutti i corpi sono belli e che se non trovi attraente una donna ben in carne o una modella oversize in realtà sei colpevole di body-shaming e vai cancellato. Ma se tutti sono belli, allora nessuno è bello. Di questo i millennial, con il loro pensiero di gruppo, non si sono ancora resi conto. O forse sì e non sono così seri come li riteniamo – forse stanno solamente trollando.

3.
Rispetto agli anni Novanta, oggi tutti vedono e sentono solo quello che vogliono vedere e sentire. Oggi tutti possono nascondersi nella loro piccola bolla ad ascoltare solo le loro verità, mentre mettono in atto le loro fantasie e non colgono il quadro generale degli avvenimenti, e neppure il fatto che ogni storia ha almeno due lati. Oggi sembra che il mondo intero si sia trasformato in Victor Ward, nato come metafora e avvertimento su dove saremmo potuti finire – un personaggio che vede e sente soltanto quello che vuole vedere e sentire, che non coglie le altre narrazioni che prendono forma intorno a lui, e che tuttavia nel 1995 godeva di un accesso a un mondo che nel 2019 hanno tutti, o così pare, perché bastano uno o due click sui nostri schermi per avere a disposizione ogni cosa, e tutti possono vedere quello che allora vedevano soltanto i Vip. L’esclusività e l’individualità stanno morendo, uccise dai social media. Sono talmente numerose le strade in cui il mondo della moda si rende accessibile a chiunque interessi, che non solo non dà più quell’impressione di esclusività che dava un tempo, ma sembra inclusivo quasi fino all’assurdo, così che il mistero e il fascino della moda, per alcuni, sono cambiati per sempre. La causa: la temuta democratizzazione delle arti provocata dai social media. Se questo mondo è accessibile a tutti e se tutti vi hanno accesso a qualche titolo, allora precisamente fino a che punto è speciale? (Anche il Met Gala viene trasmesso in streaming con i commenti di milioni e milioni di utenti in tempo reale). Non mi interessa la nostalgia – è inutile –, ma mi sconcerta come è cambiato il Dna della moda negli ultimi vent’anni, dal 1999 al 2019, e come ci siamo abituati a questo nuovo mondo. Alcune cose sono senza dubbio migliorate: è più eterogeneo di prima, quando sembrava che ci fossero solo due supermodelle nere (Naomi e Tyra), un modello (Tyson) e nessun altro.

4.
Nel 2019 è difficile credere che sia esistito un tempo senza Google, senza iPhone, senza messaggi. Un tempo in cui la fama istantanea che dà Instagram rientrava in un futuro impossibile. Impossibile, nel 1998, era anche immaginare che avremmo vissuto in un mondo dove ogni cosa può essere interpretata come offensiva e controversa in quanto razzista, sessista o omofoba da una generazione di giovani filistei dalle idee confuse. Il panico morale scatenato dal cosiddetto heroin-chic e le famigerate ed evocative pubblicità da seminterrati porno di Calvin Klein nel 1995 paiono delle angosciose trasgressioni se messe a confronto con ciò che oggi infiamma il pensiero di gruppo del momento: le scarpe di Katy Perry sembrano razziste! La campagna social di Dolce & Gabbana è razzista! La nuova generazione dei millennial agogna l’utopia di un ambiente da sogno e in cui tutti debbono essere inclusi, tutti far parte di questo gruppo condiviso, ma in realtà ciò riguarda soltanto certe persone con certi valori e che condividono lo stesso pensiero – una visione assai rigida, in effetti, perché se ne sei al di fuori, con idee che non si allineano alle loro, l’accesso ti viene negato e dunque sei bandito, nel senso inteso dal gergo corrente: se sei un conservatore con idee di destra e forti convinzioni religiose, se pensi che l’identità sessuale non sia una costruzione, per carità, vade retro, non sei incluso. Il che trasforma questa falsa idea dell’inclusività in una grossa balla di matrice progressista.

I ragazzi nel 2019 scelgono i brand non necessariamente sulla base dello stile ma perché si allineano ai loro valori. Di fatto, i valori sono il nuovo stile – una presa di posizione terribile, perché se si evita un artista soltanto per la sua ideologia, di fatto si sta attaccando l’artista – e ciò sembra accadere ovunque nella cultura. Un’intera generazione nel 2019 insiste sull’ideologia e lascia che essa comprenda l’estetica – ovvero il fulcro dell’essere un artista, e l’opposto di ciò che significa essere un semplice ideologo. Tale convincimento comunica il messaggio sbagliato agli artisti e in generale ai disruptors, i perturbatori dell’ordine – dice: chiudete la bocca, non esprimetevi in quel modo, esistono delle regole che dovete seguire altrimenti ci offendete e quindi noi vi ignoreremo. Questo è un ideale progressista che di fatto si tende la trappola da solo, e diventa regressivo. La disruption è un fattore importante che consente a ogni mezzo espressivo di respirare, crescere, evolversi e arricchirsi – senza perturbamento non c’è progresso. E questo problema, questa distorsione, non riguarda solo il modo di pensare dei millennial – ma anche i grandi gruppi imprenditoriali. Il Dna del gene disruptor è il più importante all’interno di una cultura, ma come può essere consentita agli artisti un’azione perturbatrice se si incoraggiano decisioni prese sulla base dell’analisi dei dati, e i giovani credono nell’ideologia invece che nell’estetica? Come possono i perturbatori venire alla luce e lasciar sbocciare le loro idee se non soltanto i giovani – ma anche i grandi gruppi imprenditoriali – hanno un elenco di richieste sul modo in cui ci si può e non ci si può esprimere? L’artista, in questo caso, finisce per lavorare a sostegno dello status quo e per assecondare le fantasie che una generazione intrattiene su di sé. A quanto pare i veri perturbatori adesso sono ammessi soltanto nell’arena politica, con il nazionalismo non a caso che dilaga ovunque.

5.
Negli ultimi tempi ho pensato spesso all’enfant terrible della moda Alexander McQueen – non soltanto per una biografia apparsa di recente, Blood Beneath the Skin di Andrew Wilson, e per il documentario uscito lo scorso anno, McQueen (diretto da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui), ma anche perché mentre leggevo il libro e guardavo il film continuavo a chiedermi come se la sarebbe cavata nel mondo attuale. Il giovane Alexander – probabilmente il designer più geniale della sua generazione – scatenava polemiche a getto continuo e non aveva certo remore a esprimere il suo pensiero, ma non viveva in un mondo in cui poteva essere letteralmente cancellato per la sua insolenza. È facile immaginare cosa sarebbe accaduto oggi se avesse osato sfoderare la scioccante strategia di Highland Rape, una delle sue prime collezioni, quando fece sfilare in passerella un’iconografia cupa e tormentata, con chiari riferimenti alla violenza sessuale negli abiti strappati che indossavano le modelle. McQueen è stato accusato di tutto, di essere misogino, di essere solo un provocatore dalla testa vuota, un povero ragazzetto gay che si faceva beffe del sistema – ma lo shock ha spostato l’ago della bilancia determinado una spinta in avanti. I perturbatori come lui – che è stato probabilmente il designer più controverso di sempre – portano alla società qualcosa che va al di là della nostra immagine riflessa e di ciò che pensiamo di volere, di aver bisogno e di desiderare. Un perturbatore non ci dà conferma di noi stessi – quello che la bolla millennial incoraggia a creare: una fantasia di cui essere i protagonisti –, ma ci rifiuta e ci costringe a vedere le cose sotto una luce diversa e inclemente. Se i grandi gruppi del lusso e gli algoritmi danno l’altolà ai perturbatori, e se i millennial preferiscono il messaggio allo stile e il pensiero di gruppo invece di una vera creatività individuale, gli artisti staranno molto più attenti a cosa rappresentare e di fatto cominceranno ad autocensurarsi. La democratizzazione della moda sarà anche un bene per il commercio, ma è un male per gli artisti.

6.
Il mondo analogico degli anni Novanta era tattile ed esclusivo – esistevano dei segreti e i segreti rendevano tutto più emozionante. La democratizzazione delle arti avvenuta attraverso la tecnologia e i social media ha fatto diventare tutto piatto e noioso, e poiché gran parte delle nostre esperienze avvengono per via digitale ogni cosa ci appare ancora più lontana. Saremo anche in grado di vedere quel che vogliamo – i dietro le quinte dei servizi fotografici, i fitting, le passerelle in live streaming, e magari i momenti privati delle modelle che seguiamo su Instagram – ma siamo comunque separati da tutto ciò, e alla fine ci rendiamo tristemente conto del divario incolmabile che ci divide da queste persone, ulteriore prova del fatto che internet in realtà ci fa sentire più soli, e non più interconnessi. Internet ha ucciso l’entusiasmo perché tutto è troppo diffuso, troppo equivocamente a disposizione, troppo falso – tutti possono “sperimentare” tutto ma il mistero è scomparso. La trasparenza è un bene quando si parla, diciamo, di politici e grandi gruppi imprenditoriali, ma forse nelle arti e nella moda il mistero – un mistero che sembra retaggio di un’epoca assai remota – è ciò cui aspirare, una maniera per rendere la moda più esclusiva e desiderabile. Per quale motivo una cosa dovrebbe essere tanto desiderabile se tutti comunque vi possono accedere? Non sarebbe come avere una relazione con una persona che va a letto con tutti quelli che conosci?

Nato a Los Angeles nel 1964, Bret Easton Ellis è autore e sceneggiatore tradotto in 27 lingue. Ha esordito nel 1985 con il controverso bestseller “Meno di zero”, seguito da altre sei opere narrative tra cui il romanzo “Glamorama” nel 1998. In ottobre uscirà anche in Italia il suo ultimo libro, “Bianco” (pubblicato da Einaudi, come i precedenti), una raccolta di otto saggi con un tema conduttore: la libertà d’espressione nell’epoca di Trump, dei social network e del politicamente corretto.

Vogue Italia, luglio 2019, No. 827, pag. 164