Federica, l’Ikea, gli adolescenti e cosa aspettarsi quando si aspetta

La prima volta che ho montato un mobile di Ikea, un semplicissimo carrello da cucina, a dire il vero, mi sono ritrovata, dopo svariate ore, seduta a piangere in corridoio, con una brugola in una mano e il libretto delle istruzioni nell’altra.

Quando ero incinta di Andrea, comprai il libro bestseller delle mamme americane: “cosa aspettarsi quando si aspetta“, una sorta di manuale di montaggio di un kungfors dell’ikea.

Lo leggi e ti illudi che, alla fine, ti ritroverai con il tuo carrello montato e neanche una vite di avanzo, lo leggi e sai come diventerai dopo tre, quattro, sette, nove mesi.

Lo leggi e sembra tutto semplice.

Lo leggi e tutte le tue incognite sembrano svanire.

Ricordo che leggevo questo libro in quelle giornate in cui il tempo era mio, lo spazio era mio, le attenzioni erano per me e non sapevo che tutto sarebbe finito presto e per sempre.

Compravo tutine, biberon, corredini. La carrozzina, il marsupio, i carillon.

I bavaglini con gli orsetti, le scarpine in tinta con i body, i pannolini asciutto sicuro a prova di popò, quelli da cui avresti visto defluire popò che sarebbe poi rimasta appiccicata a mo’ di tatuaggio dei polaretti sulla schiena dell’infante.

Leggevo, la mia pancia cresceva e io ero certa che sarei stata perfetta, come era perfetto quel tempo solo per me che nessuno veniva a interrompere, turbare, accorciare.

Avevo quel manuale che mi diceva tutto, non si poteva sbagliare: come allattarlo, come farlo dormire, come svezzarlo.

“Dai, è facile!”.

Quando arrivò il giorno fatidico, già durante parto, mi resi conto che, nel montaggio del mio kungfors, dovevo aver dimenticato qualche vite. “Maledizione, questo sul manuale non c’era scritto” pensavo nel corso di un travaglio terribilmente difficile.

Vabbè, torniamo al nostro kungfors: “allora, me lo porto al seno e lui mangia, lo metto nella culla e lui dorme”.

No, non era proprio così.

Ricordavo, però, che alla pagina 927 del manuale c’era scritto di non andare nel panico, di fare un bel respiro e di riprovare.

Al millesimo “cazzo, dormi!” effettivamente la mia creatura si addormentava e io facevo pace con il manuale della mamma perfetta.

Scoprivo, giorno dopo giorno che “cosa aspettarsi quando si aspetta” era un titolo da completare a piacere, a seconda delle situazioni: “quando si aspetta che faccia il ruttino, che si addormenti, che faccia la cacca, che esca da scuola, che ti saluti mentre grondi sudore seduta sugli spalti della piscina”.

Passata la stanchezza, però, c’è stato un periodo di esaltante bellezza: parlo di quell’età in cui i figli sono abbastanza autonomi, ma ti guardano come io guardo il corriere di Amazon, con quel misto di riconoscenza (per non essere stati abbandonati sulle scalette di una chiesa, nel caso delle amate creature) e di amore incondizionato verso quella che è la mamma più bella, più buona, più brava del mondo.

“Mamma, come cuoci tu gli hamburger di prosciutto cotto non li cuoce nessuno” è, probabilmente, la frase d’amore più bella che mi sia mai stata dedicata.

Ecco, in questo periodo di grande amore reciproco ti illudi di essere davvero una brava madre, che tuo figlio ti amerà per sempre e che nulla potrà mai rompere quell’idillio.

Poi, una mattina qualunque ti svegli e la voce pigolante del tuo bambino è stata sostituita da un vocione cavernoso che non conosci: “Mamma” dice lui.

“Chi c”è in casa??”, urli tu, brandendo la brugola dell’Ikea.

Ecco, da quel giorno inizia tutta una serie di percettibilissimi cambiamenti che ti fanno entrare nel secondo, terribile travaglio della tua vita: l’adolescenza.

L’adolescenza è una fase inevitabile e terribile come la ceretta dopo che ti hanno tolto il gesso.
Chi ha portato il gesso e poi ha fatto una ceretta per disboscare la zona sa di cosa parli.

Giorno dopo giorno, quella vocina che ti teneva compagnia per ore intere inizia a farsi sentire solo per cose, tipo: “ma”, devo uscire, mi serve la paghetta, ho bisogno dei pantaloni nuovi, devo andare in palestra, vienimi a riprendere, non hai ricomprato lo shampoo, non dirmi cosa devo fare, compra una tv più grande, devo tagliarmi i capelli, domani c’è sciopero, ti odio”.

Sì, tu sei lì a preparare quella che era la sua torta preferita e lui, dopo aver sbattuto porte, alzato la musica, dopo essersi fatto una doccia da 37 minuti, aver videochiamato più gente di quanta tu ne abbia conosciuta in una vita intera, ti guarda e ti dice “tu non mi capisci”, senza più nulla di quello sguardo tenero che ti aveva accarezzata per anni, senza più nulla di quella voce che ti dedicava poesie.

Senza. Senza tuo figlio, il tuo bambino, impunemente sostituito da uno sconosciuto che gira per casa in mutande, ascoltando musica che non conosci, usando termini che non conosci, più spesso tacendo o, peggio, spiegandoti quanto tu non capisca lui e il suo mondo.

Tu stai là, lo guardi e pensi che questo non era scritto neanche nell’appendice del manuale “cosa aspettarsi quando si aspetta”.

Lo guardi e provi lo stesso senso di smisurata inadeguatezza provato nel montare il tuo kungfors, con una brugola in mano, il manuale nell’altra, diverse viti in avanzo e il carrello pericolosamente storto.

Lo guardi e pensi che, in fondo, il carrello puoi sempre portarlo indietro, mentre quel tipo che ti guarda sdegnato, con le cuffie alle orecchie e i pantaloni strappati, puoi solo sperare di averlo tirato su senza aver dimenticato troppe viti.

di Federica Meogrossi

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