Rosa Genoni

La rivoluzione di Rosa Genoni, grande madre del made in Italy

Rosa Genoni, pioniera del Made in Italy, stilista, attivista politica in difesa dei diritti delle donne e delle lavoratrici, militante per la pace e la giustizia.

A 70 anni dalla morte, il libro “La donna che odiava i corsetti” di Eleonora D’Errico, racconta il talento e la lotta per creare vestiti dalla parte delle donne di Rosa Genoni (1867-1954), un’incredibile donna che partendo da umili origini rivoluzionò il mondo della moda in Italia.

L’obiettivo di Rosa Genoni era concretizzare l’idea di una moda d’arte tutta italiana, ovvero di quello che sarebbe stato, anni dopo, il celeberrimo Made in Italy.

Il suo motto? «La moda è una cosa seria».

Chi era Rosa Genoni

Rosa Genoni, nata in una famiglia contadina nel varesotto e poco alfabetizzata, aveva solo dieci anni quando lasciò la sua famiglia a Tirano, sulle montagne della Valtellina, e si trasferì a Milano per lavorare come “piscinina” nella sartoria della zia Emilia.

È il 1877 e la città la travolge. La vita di un’apprendista sarta è dura, i turni estenuanti, ma lei è sveglia e dimostra subito un talento speciale per la moda. Così assorbì tutto, comprese le nuove idee di giustizia sociale e libertà, diventando una giovane donna coraggiosa oltre che una sarta raffinata con idee innovative.

La sua carriera la portò a diventare insegnante di sartoria presso la scuola professionale femminile della Società Umanitaria di Milano, dedicata alle donne meno abbienti.

Gestendo una scuola-sartoria per sole donne, la Genoni promosse la giustizia sociale, ottenendo salari dignitosi, un nido interno per permettere alle donne di lavorare senza rinunciare alla cura dei loro bambini e promuovendo un elevato livello tecnico che valorizzasse le loro abilità artigiane. Fin dalla sua formazione in bottega, la sua passione era concentrata sulla scoperta dei processi, dei metodi produttivi e delle logiche proprie di quelli che lei stessa definiva ‘ambienti di lavoro’.

Da Milano a Parigi, dove nacquero gli abiti che tutto il mondo amò, il passo fu breve. È qui che Rosa concepì l’idea di una moda che non fosse solo un’ottima copia di quella d’Oltralpe, ma che risplendesse di un’originalità tutta italiana, ispirata ai dipinti del Rinascimento e ai fiori delle sue Alpi.

Il suo obiettivo dichiarato non era il recupero nostalgico di un passato glorioso, ma piuttosto un profondo desiderio di affrancare la moda italiana dalla sudditanza alla moda francese, rendendola indipendente sul piano produttivo e culturale. Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, un abito, un cappello, una borsa, una scarpa non avevano senso se non erano una derivazione (o una riproduzione pedissequa) dell’idea di un couturier parigino.

Rientrata a Milano nel 1888 – proprio a ridosso degli anni post-unitari – iniziò a tracciare le basi per una moda italiana, indipendente, arrivando al nocciolo della questione: l’Italia poteva investire su sé stessa. Così inventò il concetto di “Made in Italy”. Tra broccati e toilettes di seta, l’impegno di insegnante all’Umanitaria e l’amore – scandaloso all’epoca – per l’avvocato Podreider, Rosa visse la sua vita anticonformista e luminosa, le sue battaglie per liberare le donne dai corsetti e dai pregiudizi.

A Milano lavorò prima alla sartoria Bellotti, per assumere in seguito la direzione della sartoria della ditta Haardt et Fils, specializzata fino ad allora in biancheria francese. Dal 1905 collaborò con la Società Umanitaria di Milano, istituzione filantropica che operava principalmente nell’ambito della formazione professionale. Qui insegnò principalmente Storia del costume nell’ambito della Scuola professionale femminile fino al 1933, adottando un programma didattico basato sull’osservazione di opere d’arte che la porterà a utilizzare lo strumento della diapositiva durante le lezioni.

Momento clou della sua visione fu l’Expo 1906, l’Esposizione internazionale di Milano, dove risplendette come stilista prima del tempo, con l’esposizione dei suoi modelli innovativi nello stile e nelle stoffe, vincendo il Gran Premio della giuria internazionale. La sua scelta ricadde su modelli ispirati alla tradizione artistica italiana rinascimentale, nell’ottica di riscatto nei confronti della moda francese.

Nel 1908, durante una visita al Museo del Louvre, arrivò l’illuminazione per il suo abito-statement. Rosa si ispirò alle statuette fittili del Terzo secolo a.C. rinvenute nella città di Tanagra, in Boeozia, per opporsi alla tradizione secolare del corsetto e riesumare la gentilezza del drappeggio. Così, l’abito Tanagra, funzionale alla libertà di movimento, aspirava a una nuova immagine (e ruolo) femminile. La sua migliore testimonial? Lei stessa. Non a caso, lo sfoggiò in occasione del Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane nell’aprile del 1908, mentre declamava il suo discorso sul rilancio dell’artigianato femminile come forza economica e sociale.

Un gesto decisamente emblematico, o meglio, politico. Il suo discorso denunciò la mancanza di una moda italiana nel contesto del rinnovamento culturale e industriale del paese. L’abito raccontava di donne energiche, indipendenti ed eleganti anche nella loro attività politica e lavorativa. Oltre ad aver gettato le basi per una moda italiana indipendente da quella francese, Rosa Genoni, vedeva nella sartoria un forte nesso con l’emancipazione delle donne.

Del resto, con lo sviluppo delle industrie negli ultimi decenni dell’800, in Italia prevaleva il settore tessile e la manodopera era in primis femminile. Solo a Milano l’85% delle donne lavorava nella catena del vestiario, segnata da una grande discriminazione salariale e da condizioni pesanti.

Rosa, avendole provate sulla sua pelle, lo sapeva benissimo. E la miccia della sua militanza politica si accese. Nella cerchia anarchica di Pietro Gori, conobbe invece l’avvocato milanese Alfredo Podreider, love story di una vita, suggellata nel matrimonio solo dopo la morte della suocera, contraria alla sua posizione di lavoratrice politicizzata indipendente.

Rosa Genoni Libro

Con lo scoppio della Grande Guerra accantonò la moda per dedicarsi alla propaganda antinterventista, una posizione scomoda e pericolosissima all’epoca. Aiutata da Podreider e da altri compagni socialisti, fondò l’associazione Pro Humanitate, che forniva assistenza agli sfollati italiani in arrivo dal Belgio.

Era il 1915 quando Rosa partecipò come sola e unica voce italiana su 1136 delegate, tra Jane Addams, Aletta Jacobs e Rosika Schwimmer, al Primo Congresso Internazionale delle Donne per la Pace all’Aia. La Genoni fu cofondatrice della Women International League for Peace and Freedom nel 1915. Durante la guerra, guidò il movimento Donne per la Pace, lanciando una petizione nel 1916 per la liberazione di tutti i prigionieri di guerra.

Impegnata nel socialismo, nell’insegnamento steineriano e nel femminismo, Rosa Genoni perse tutto nel 1931 quando rifiutò di aderire al fascismo.

Ennesimo primato per Genoni stava nel “fare scuola”, e soprattutto nel dirigere la formazione di sarte della Società Umanitaria di Milano, dalla quale si dimise nel 1933 pur di non abbassare la testa al fascismo.

E non si limitò ad insegnare a copiare le proporzioni su un manichino, ma stimolò la creatività con nuovi metodi e aprì anche un laboratorio per le detenute di San Vittore. Portava la docenza in palma di mano, tanto da considerare le sue allieve “artefici di un’idea emancipatrice della moda italiana”.

Rosa Genoni, recentemente apprezzata grazie a uno speciale televisivo ‘Passato e Presente’ di Paolo Mieli su RaiPlay, rappresenta una figura poco conosciuta ma straordinaria, che incarna un femminismo dalle sfaccettature complesse.